BEYOND THE ADVANCED PSYCHIATRIC SOCIETY- A COLLECTIVE RESEARCH/ OLTRE LA SOCIETA' PSICHIATRICA AVANZATA- UNA RICERCA COLLETTIVA


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venerdì 8 aprile 2011

Nel regno dell’ansia (G. Conserva- 2005)



‘E la Via.
Seguilo nel Paese dell’Improbabile.
Vedrai animali rari, ed avrai avventure uniche.

‘E la Verità.
Cercalo nel Regno dell’Ansia.
(W.H.Auden)





INDICE
I Un suicidio
II Rogers
III Alla ricerca di sé
IV Pensieri d’aragosta
Appendice: psichiatri
Bibliografia


I    UN SUICIDIO

‘Ellen West’ (uno pseudonimo), ebrea, di famiglia ricca, morì suicida a 33 anni dopo ‘una lunga storia psichiatrica’ (come si suole dire). Molti anni dopo, nel 1944, lo psichiatra svizzero Ludwig Binswanger pubblicò uno studio presto divenuto famoso sul suo ‘caso’. “Il caso Ellen West” doveva poi confluire nel suo “Schizophrenie”, testo chiave della sua Daseinsanalyse (fortemente influenzata dal primo Heidegger, quello di “Essere e tempo”) e della psicoterapia esistenziale; venne salutato come un modello di penetrazione psicologica: al posto della incomprensibilità attribuita ai pazienti psicotici si aprivano canali di comprensione con il loro mondo, con il loro ‘progetto di mondo’. Il procedimento di Binswanger (che sfruttava, rielaborate, le categorie base heideggeriane: angoscia, essere-nel-mondo, quotidianità, essere-gettati, deiezione etc.) diviene un modello (collegandosi per un altro verso alla corrente fenomenologica aperta da Minkowski e Jaspers). Egli, per parte sua, non ostante contatti stretti con questi ambienti, con la psicoanalisi, con filosofi come Buber, rifiutò sempre di agire da caposcuola e si mantenne sempre isolato. Il suo influsso fu non di meno enorme (si vedano p.e le parole che gli dedica Eugenio Borgna ne ‘Le figure dell’ansia’). Lo stesso iniziatore della antipsichiatria, Ronald Laing, nella sua prima opera, ‘L’Io diviso’, lo inserisce fra i fondatori di un indirizzo non oggettivante nei confronti del mondo dei c.d. pazienti psichiatrici.-
Da una analisi di questo testo enorme ( 170 pagine) emergono tuttavia problemi notevoli, interamente suffragati d’altra parte dalle ricerche condotte negli ultimi anni sfruttando gli archivi della Clinica Bellevue di Kreuzlingen, oltre a documentazione tuttora in possesso di parenti superstiti della paziente (v. Hirschmüller, 2003).
La Clinica Bellevue era di proprietà della famiglia Binswanger. Venne fondata a metà dell’Ottocento da un primo Ludwig, psichiatra (di origine ebraica, ma convertito al cristianesimo), e diretta poi dal figlio Robert, e quindi dal nipote, il nostro Ludwig Binswanger (allievo di Eugen Bleuler). Era una clinica ad alta intensità terapeutica, come si direbbe ora, che combinava le più avanzate conoscenze e tecniche psichiatriche con socioterapia e ambiente famigliare (con rapporti stretti fra ospiti e membri della famiglia Binswanger); era frequentata da uomini e donne di alto rango sociale (spesso di alto livello intellettuale), provenienti da tutte le parti del mondo, per problemi sia di tipo nevrotico che psicotico; godeva di larga rinomanza e prestigio (v. il saggio di Annett Moss sulla storia della Clinica). In questo istituto Ellen West trascorse circa tre mesi, accompagnata dal marito, immediatamente prima della morte per suicidio ( suicidio assistito al marito, si è scoperto) che ebbe luogo pochi giorni dopo la dimissione. ‘E chiaramente estremamente insolito che una storia clinica venga pubblicata oltre due decenni dopo la conclusione del trattamento (anche se in effetti anche altrove Binswanger ha proceduto in modo analogo- anche se sviluppando molto meno la sua analisi); tanto più davanti a un livello di elaborazione così approfondito. Si è ipotizzato da più parti un aspetto autogiustificativo davanti alla decisione della dimissione (presa di fatto assieme da Binswanger e dal marito di lei), come pure una risonanza postuma del suicidio, avvenuto nel 1929, del figlio maggiore di Binswanger (che era anche il suo successore designato alla direzione della Clinica).

Lo scritto di Binswanger è diviso in quattro parti, diversissime fra loro:
a) storia clinica;
b) analisi esistenziale;
c) una discussione del rapporto fra Daseinsanalyse e psicanalisi ( Ellen si sottopose a due analisi, entrambe interrotte, prima dell’ingresso alla Bellevue);
d) una analisi clinica-psicopatologica.
In b) Binswanger sfodera tutto il carattere evocativo e suggestivo della sua prosa, come si può capire fino dai titoli delle varie sezioni che la costituiscono: Mondo, Tempo, Eternità ( e compaiono termini come ‘mondo etereo’ e ‘mondo sepolcrale’). La parte c) è una discussione in termini psichiatrici standard sulla diagnosi di Ellen West, diagnosi molto dubbia: allora si oscillò, da parte dei molti specialisti che ebbero variamente a che fare con lei, fra nevrosi edipica, isteria, nevrosi ossessiva, simil-tossicomania (centrata sul cibo), malinconia- parere questo di Kraepelin-, sviluppo di personalità, schizofrenia indifferenziata ( Binswanger, e anche Bleuler). -La parte a) si basa su notizie fornite in parte dalla paziente e (soprattutto) dal marito; su alcune relazioni, contemporanee agli avvenimenti o successive, dei terapeuti che la ebbero in cura; su frammenti di diario e lettere di Ellen, su alcune poesie sue, su uno scritto degli ultimissimi tempi- ‘Storia di una nevrosi’- il tutto, si è accertato, mediato, scelto, espurgato di alcune parti ‘troppo personali’, fattualmente redatto (nel caso di ‘Storia di una nevrosi’) da parte del marito (di questo non si trova alcuna menzione nel saggio di Binswanger). Sono comunque brani altamente espressivi, lucidi, spesso toccanti (oltre che senza alcuna traccia di disturbi formali del corso del pensiero, bizzarrie, manierismi linguistici, regressione o decadimento intellettivo; come pure senza traccia di fenomeni psicosensoriali o deliri). Affiora una tendenza dei genitori e del marito (e di Binswanger) a leggere a posteriori quasi in qualunque elemento i segni di un processo patologico in corso: Ellen rifiutò il latte a 12 mesi di età! fino ai 16 anni amava i giochi mascolini! rifiutava l’ambiente (alto)borghese da cui proveniva! fece amicizia con alcune ragazze che desideravano essere magre, slanciate, eteree! a 23 anni ebbe una ‘spiacevole storia d’amore’ con un maestro di equitazione!- La sua ‘ostinazione’ diventa un suo tratto strutturale e fondante, è lei che la porta a una rivolta sempre più distruttiva contro il suo corpo, la vita, il mondo. (Non c’è da stupirsi che teoriche femministe abbiano parlato a questo proposito di un atteggiamento assolutamente reazionario di Biswanger nei confronti del ruolo e dei diritti della donna).
Di fatto Ellen non ha problemi fino ai 20 anni; è intelligente, attiva, piena di interessi; intende iscriversi a economia politica, e dedicarsi a migliorare le condizioni delle masse povere; è stanca dell’’angusto ambiente famigliare’, sogna l’amore. A 20 anni rompe il fidanzamento con un ‘romantico straniero’ (l’espressione risale al marito N.B.), su pressione del padre. Poco dopo affiora un elemento destinato a durare: l’angoscia di ingrassare; inizia a tentare disperatamente di calare di peso. Vengono poi grosse oscillazioni depressive, comunque sempre superate. Si dedica con energia e risultati a attività di assistenza per bambini poveri, si iscrive all’università, che frequenta in un’altra città. Conosce uno studente, e a 24 anni si fidanza con lui.- I genitore si oppongono anche a questa relazione: depressione, terribili sforzi per dimagrire, per diventare slanciata, ‘eterea’, come è il suo ideale; arriva a prendere 48 pastiglie al giorno di estratto di tiroide, oltre a lassativi; si riduce in condizioni fisiche disastrose, ma ora è soddisfatta perché il peso è calato. Viene ricoverata d’urgenza in una clinica (diagnosi morbo di Basedow!), e lì ingrassa 30 chilogrammi, nell’angoscia totale.
A un certo punto incontra un cugino: questi, un giurista, incarna la rispettabilità e l’appoggio dei genitori. Dopo molte esitazioni e code del rapporto con lo studente lo sposa infine, a 28 anni. ‘E sempre perseguitata dalla paura di prendere peso; odia il proprio corpo;- prende tiroidina e lassativi, fa con il marito passeggiate infinite per dimagrire. Ha un aborto, verosimilmente collegato alla pessima nutrizione. A 29 anni si fermano le mestruazioni; poco dopo si interrompono i rapporti sessuali con il marito. Continuano le oscillazioni di peso, mentre le condizioni fisiche e psicologiche peggiorano. Inizia una prima analisi (con Von Gebsattel, più tardi famoso come fenomenologo; ebbe, oltre 20 anni dopo, in cura Martin Heidegger), che dura meno di un anno e non conclude molto. A 32 anni seconda analisi; l’analista lavora fra l’altro sul rapporto con il marito, che tenta di tenere a distanza; le cose assumono un andamento vorticoso: un primo tentativo di suicidio con farmaci, poi un altro a brevissima distanza; tenta di buttarsi dalla finestra dello studio dell’analista; all’angoscia di ingrassare si è aggiunta l’ossessione del pensiero del cibo, che le riempie costantemente la mente. Soffre enormemente, desidera morire.
Nel gennaio 1921 il marito la porta alla Clinica Bellevue, sfruttando le vacanze dello psicanalista per interrompere l’analisi. Uno degli obiettivi è stabilire in modo definivo diagnosi e prognosi della malattia. Dopo una breve fase iniziale di tranquillità le condizioni ridiventano disastrose. Continua a desiderare la morte; tenta di sfondare la testa contro una lastra di pietra; offre una enorme somma di denaro a un contadino perché la uccida. Si tiene un consulto con Bleuler (l’eminente psichiatra di Zurigo, maestro di Jung e di Binswanger, il coniatore della parola ‘schizofrenia’) e un altro luminare, c’è accordo sul carattere psicotico del processo, e sulla impossibilità di fornire cure sicuramente utili. Il marito, che è stato accanto a lei in clinica per tutto questo periodo, rifiuta il passaggio ad un reparto chiuso (non essendovi, dice, garanzia di interventi risolutivi); Ludwig Binswanger la dimette, come lei stessa ha chiesto, nella piena consapevolezza, estesa al marito di lei, che l’esito probabile sarà la messa in atto del suicidio. Qualche giorno di serenità estrema (almeno nella versione ufficiale), e di interna festosità: per la prima volta da anni mangia e si abbuffa senza problemi (dolci! cioccolatini!), legge tranquilla poesie di Goethe, Rilke, Storm, Tennyson, e testi di Mark Twain- alla sera scrive lettere e si suicida con il veleno (che, si scoprirà 80 anni dopo, il marito le ha procurato).

Il ricordo di questi eventi rimane a lungo presente nella mente di Binswanger; questi intratterrà per moltissimi anni un rapporto epistolare con il marito di lei; ancora molto più tardi parlerà della decisione di dimetterla (che ha sempre rivendicato) come di quella più difficile della sua carriera professionale. Tutto lo scritto ha una vena sotterranea di profonda emozione e l’andamento del panegirico antico- il discorso funebre dedicato agli eroi caduti. Con acribia e attenzione tutto viene ripercorso e analizzato, con un tono spesso di alta eloquenza oltre che con uno strumentario concettuale e metaforico enormemente sviluppato e raffinato . – Come ricordato sopra, questo studio divenne famoso ed apparve esemplare. Il mondo interiore degli schizofrenici diveniva finalmente non più solo bizzarramente alieno (più in generale veniva indicata la strada della comprensione, come contrapposta a quella della spiegazione). Non solo Rollo May, Cargnello, Laing o Borgna vi si sono riferiti, ma i manuali di psichiatria più ufficiali. Poesie e canzoni vennero dedicate a Ellen West. Il ‘mondo della tomba’ divenne perfino uno dei leit motiv di parecchi romanzi di fantascienza di Philip K. Dick (i cui androidi- come quelli gelidi, non empatici, ‘disumani’ di ‘Blade Runner’- erano ricalcati sugli schizofrenici binswangheriani).1 Come tutti i testi classici, in questi anni esso ha sollecitato riesami, interpretazioni e re-interpretazioni da svariati punti di vista, per tutto quello che dice e tutto quello che non dice (ovvero volutamente nasconde o distorce); queste 170 pagine sono comunque destinate a rimanere come un monumento funebre alla memoria di questa giovane donna, alla sua ricerca di significato per la propria esistenza, alla sua lotta contro l’angoscia e il dolore.

(1 “Anoressia nervosa, paranoia sensitiva, l’audace volo verso l’alto come Ellen West e poi la terribile caduta via dall’Eigenwelt- tutto quanto. E infine il Mondo della Tomba. Tutto questo, chiaramente, è già successo a Jamis.” )


Binswanger: “ La temporalità del mondo sepolcrale”

"Già a questo punto sarà chiaro che come il mondo etereo è dominato dal futuro(inautentico), il mondo sepolcrale è dominato dalla supremazia del passato continuamente presente e, in quanto privo di futuro, inautentico. (…)
L’ispessimento, il consolidamento, il restringersi dell’ombra sull’imputridimento vegetativo e l’accerchiamento totale sino ai muri del sepolcro sono espressione della crescente supremazia del passato su questa presenza, della supremazia dell’essere-già nella situazionalità dell’inferno e dell’inevitabile indietro-su-di-essa. Questa angoscia dellinferno è l’angoscia della presenza di venire inghiottita dal suo fondamento, dal quale tanto più profondamente viene inghiottita quanto più in alto tenta di balzargli via, di sfuggirgli. In luogo dell’autoimpadronirsi del fondamento e del divenir-trasparenti a se stessi sulla sua base compare l’angoscioso esserne dominati, come sprofondamento nel nulla.
Dove la presenza non può progettarsi in vista di se stessa, dove è ‘tagliata fuori dal futuro’, il mondo in cui essa esiste scade all’insignificatività, perde il suo carattere di appagatività e si trasforma in inappagatività. In altre parole: la presenza non trova più nulla in base a cui possa comprendersi, il che peraltro vuol dire che si angoscia, che esiste nel mondo dell’angoscia o, come noi diciamo è nudo orrore. ‘E però ora importante sapere che il nulla del mondo, innanzi a cui l’angoscia si angoscia, non vuol dire che nell’angoscia sia sperimentata un’assenza del semplice-presente intramondano, questo, piuttosto, deve venire incontro proprio affinchè non si possa avere con esso nessuna appagatività ed esso si possa mostrare nella sua vuota spietatezza. Ma a questo si aggiunge ancora che l’insignificatività del mondo che si dischiude nell’angoscia rivela la nullità di ciò di cui ci si prende cura o, come noi diciamo, nella prassi. ‘L’angoscia si angoscia per la nuda presenza in quanto gettata nello ’.
A tale proposito, è da osservare in primo luogo che nell’angustia del mondo sepolcrale il mondo non ha tuttavia completamente perduto il suo carattere di appagatività, non è scaduto a completa insignificatività e che la presenza ha qui ancor sempre qualcosa in base a cui poter comprendersi, e questo è appunto il sepolcro, il carcere, il buco nella terra. Che qui la presenza, ciononostante, sia nell’angoscia, indica che già il restringimento e il livellamento della significatività del mondo, di pari passo procedenti con il prevalere dell’essere-stato, già la perdita da parte del mondo del suo carattere di appagatività significa angoscia. Abbiamo seguito a passo a passo questo sfigurarsi del mondo e l’abbiamo riconosciuto nello ‘scadere’ della mondità da un mondo estremamente mobile, estremamente fuggevole in un mondo estremamente rigido, amorfo (privo di forma), dove la presenza non trova più niente di ‘nuovo’ in base a cui possa comprendersi, ma solo può farlo in base al passare e al decomporsi dell’abituale e di ciò che è a sazietà noto. La presenza dunque si angoscia già là dove, nel libero progettarsi in vista di se stessa, nel suo più proprio poter-essere si fa non libera. Il semplice-presente intramondano non ha dunque affatto bisogno di mostrarsi nella sua vuota spietatezza, è sufficiente che si mostri nel suo aspetto di svuotamento, nel nostro caso nell’aspetto di terra, di sepolcro o di buco nella terra. Tutte queste espressioni indicano però una cosa, che lo svuotamento della significatività del mondo, lo sfigurarsi del suo carattere di appagatività e ‘vuoto esistentivo’ hanno un unico e medesimo significato, e ciò in base ad una modificazione dell’unico senso esistenziale della temporalizzazione. Se il mondo diventa insignificante e sempre più perde il suo carattere di appagatività, se sempre meno la presenza trova qualcosa su cui possa progettarsi e in base a cui possa comprendersi, se il mondo si mostra, dunque, nell’aspetto dello svuotamento (della terra, della voragine, della fossa nella terra) e la presenza non è più proiettata in avanti, bensì rigettata sul mero esser-stato, nel quale non può più comprendersi in base a ‘qualcosa di nuovo’ ma soltanto in base alla cerchia dell’abituale e del noto compresi a sazietà, tutto questo significa che, come tanto bene si esprime la lingua parlata, niente più si muove e ‘tutto rimane ancorato al passato’. Questo non-muoversi-più e rimanere-ancorati-al-passato, che dunque concerne tanto il mondo quanto l’esistenza, non è se non un restar-fermo o al massimo uno strisciare. Quando Ellen West si concepisce come verme della terra, con ciò esprime la medesima cosa che quando si accorge che il suo ‘sviluppo è cessato’, che è tagliata fuori dall’avvenire, che più non scorge innanzi a sé ampiezza e luce, e che al contrario non le è concesso se non il voltolarsi lentamente in un cupo, angusto cerchio. Questo però non significa se non quanto noi in psicopatologia e la stessa Ellen West definiamo uno scadere dall’altezza ‘spirituale’ ad un livello più basso, al livello del soltanto-ancora o del quasi-soltanto-ancora-vegetare, del mero appetire. L’appetire è caratterizzato in termini esistenziali con la prossimità, l’angustia e il vuoto del mondo, con il suo aspetto di voragine, in cui la presenza si appaga di ciò che è a portata di manoe, come nel nostro caso dobbiamo dire, ‘a portata di bocca’, dove dunque nulla è oggetto di riflessione e di scelta, ma tutto viene afferrato o addentato con frenesia e ci si getta freneticamente ‘come un animale’ su quanto appunto è semplicemente alla mano. La forma di temporalizzazione di questo essere-nel-mondo non è più l’aspettarsi (del futuro), bensì un mero presentificare, un presentificare il mero ora, che né nasce dall’avvenire, né si lascia alle spalle un passato. La ‘serietà animale’ di questo presente si mostra in ciò, che tutto ancora si ‘aggira’ unicamente intorno al mangiare o divorare, come l’unica appagatività in base alla quale la presenza possa ancor comprendersi. Dopo tutto quello che siamo venuti esponendo, sarà ormai chiaro che, come si è sottolineato in precedenza, una simile bramosia di mangiare, in quanto espressione dello svuotamento e della trasformazione in terra del mondo dell’esistenza, è angoscia. Il fatto che Ellen West si getta sul cibo ‘come un animale’ significa che ella è mossa dall’angoscia, e se da un lato cerca di farla tacere nella bramosia del divorare nel mero ora – infatti nel trangugiare il cibo ancora ‘qualcosa si muove’- è soltanto per ricadervi nel successivo punto-ora. Questo è il ’laccio’ da cui Ellen non si può sciogliere e in cui la sua presenza è irretita. L’angoscia di ingrassare si rivela così come un’altra espressione dell’angoscia dinnanzi alla perpetuazione della bramosia nella forma dell’ingrassamento, della trasformazione in verme, dell’imputridimento, dell’insipidezza, dell’imbruttimento e della despiritualizzazione della presenza. L’esser-grassa è il perpetuo rimprovero che qui la presenza si fa, la sua autentica ‘colpa’. La contraddizione tra il mondo etereo e il mondo sepolcrale, tra l’esistentiva iperilluminazione e l’ombra esistentiva, si era rivelata come contraddizione tra un danneggiarsi-sollevando il peso della temporalità della presenza e un esserne tirata-giù. Nella storia della vita della nostra malata ciò si manifesta con stupefacente nitidezza. Che sussista una contraddizione tra i due mondi. non significa dunque che l’uno sia unicamente una festosa gioia della presenza e l’altro unicamente lutto o malinconia della presenza: entrambi i mondi piuttosto, se così si può dire, sono mondi dell’angoscia, quello etereo, nel senso dell’angoscia sorta dal voler-essere-diversa dinanzi al futuro autentico e quindi anche dell’angoscia dinanzi alla morte, il mondo sepolcrale, nel senso dell’angoscia dinanzi al mero esser-stato. Nell’uno, la presenza si consuma nel mero desiderare della fantasia, nell’altro, nella mera bramosia di vita. La contraddizione tra i due mondi non è contraddizione tra non-angoscia, festosità della presenza o ‘serenità [ ‘Gelassenheit’] (E.Straus) da un lato e angoscia dall’altro, ma contraddizione tra due diverse forme di angoscia, l’angoscia dinanzi alla vecchiaia e alla morte e l’angoscia dinnanzi alla vita. In entrambe le forme può trovare la sua espressione l’unica angoscia dinnanzi alla nullità della presenza ed entrambe possono dunque venir scambiate: Ade può significare Dioniso e Dioniso Ade. La contraddizione tra le due forme di angoscia è contraddizione dialettica nel senso dell’antinomia della presenza, cioè dello stretto intrecciarsi della vita con la morte e della morte con la vita. Il suicidio è tuttavia una consapevole rottura di questa antinomia, mediante una ‘conclusiva-decisa’ azione della prassi nella quale, alla fine, la libertà trionfa necessariamente sulla non libertà. L’essenza della libertà come necessità si fonda tanto profondamente nella presenza da poter dunque ancora disporre della presenza stessa.”
(“Il caso…”, pp. 143-147)



Binswanger: la significatività/positività della morte di Ellen W.:
“Il fatto antropoanalitico che la certezza intuitiva della morte, che la morte immanente alla vita (v.Gebsattel) si riveli come ombra che si stende sulla vita e che la prossimità della morte (transeunte la vita) si riveli tuttavia come luminosità, anzi come festosa gioia esistenziale, va ora però inteso, al pari dello stesso suicidio, anche in riferimento al significato che la morte ha in generale per questa presenza. Per Ellen West, discepola di Niels Lihne e perfetta nichilista, la morte significava l’assoluto nulla, cioè non soltanto la negazione, ma l’assoluta nullificazione della presenza. Abbiamo certo visto che la morte per questa presenza si è ripetutamente configurata anche secondo un senso erotico, ad esempio nel desiderio di essere baciata a morte dal fosco e gelido dio-padre troneggiante al di sopra delle nubi e nelle funebri immagini della ‘grande amica’ e della bella signora dai profondi occhi sognanti. Ma in nessun punto troviamo non tanto una prova, quanto un semplice accenno alla possibilità che l’erotismo macabro costituisse un movente del suicidio o anche soltanto del sentimento di felicità di fronte alla morte. Al contrario: con la lettera all’ultima eterea amica, Ellen West prende congedo dall’erotismo come prende congedo da tutto. Non possiamo dimenticare che l’esecuzione del suicidio significa l’ultima azione pratica di questa figura antropologica e che essa deriva appunto dal mondo della prassi, della riflessione e della progettazione e non dal mondo etereo delle fantasie e dei desideri. E se anche sappiamo che ‘dietro’ motivi razionali molto spesso ‘si celano’ desideri emozionali, è proprio il prender congedo a mostrarci, tuttavia, che per Ellen, così come corrispondeva alla sua ‘visione del mondo’ non soltanto scettica ma nichilista, questo ‘prender congedo’ aveva il significato di un ‘congedo per sempre’. Tutte le indicazioni di cui disponiamo fanno escludere che vi fosse in lei la fede in una qualsiasi continuazione della vita dopo la morte, come anche di un ‘desiderio etereo’ di una simile continuazione. Dobbiamo renderci conto che per Ellen West tutto cessa con la morte, il mondo della prassi quanto il mondo etereo e il mondo sepolcrale. E solo perché Ellen si trova davanti all’assoluto nulla, può sparire ogni problematica (sempre relativa), ogni contradditorietà tra i diversi mondi tra i quali era divisa, e l’esser-ci [Dasein] può ancora una volta divenire pura festa. Ma a differenza della festosa gioia esistenziale come tale, che scaturisce dalla pienezza dell’esser-ci, in quanto come fondamento originario di ogni arte, in Ellen West tale gioia sorge di fronte al nulla e si accende per la prospettiva del nulla. In ciò possiamo riconoscere l’enorme positività che può spettare al nulla nell’esistenza. Dove questo si avvera, come nel caso di Ellen West, la storia della vita si trasforma in particolare misura nella storia della morte, e a buon diritto parliamo di una presenza consacrata alla morte.”
(“il Caso…”, pag. 132-133)


Dal diario: Ellen a 21 anni (1908)- ‘io non sono una bambola’-
“Da gran tempo non ho più tenuto un diario, ma oggi devo riprendere il mio quaderno; in me c’è infatti una tale rivolta e un tale fermento che devo aprire una valvola di sicurezza se non voglio scoppiare perdendo ogni freno e diventando aggressiva. ‘E davvero triste che io debba tradurre tutta l’energia e la voglia di fare in parole che nessuno ode, anziché in energiche azioni. ‘E un peccato per la mia giovane vita, un vero delitto ai danni della mia mente sana. A che scopo la natura mi ha dato salute e ambizione? Non certo per soffocarle e comprimerle e farle morire nei lacci della vita d’ogni giorno, ma per impiegarle al servizio della misera umanità. Le ferree catene della vita quotidiana: le catene delle convenzioni, le catene del possesso e della comodità, le catene della riconoscenza e del riguardo e, più forti di tutte: le catene dell’amore. Sì, sono queste a reprimere in me, a trattenere in me il rinnovarsi di una vita fiera, l’agire senza riserve nel mondo della lotta e del sacrificio, a cui aspira tutta la mia anima. O Dio, l’angoscia mi rende furiosa! L‘angoscia, che è quasi certezza! La coscienza che alla fine perderò tutto, ogni coraggio, ogni indignazione, ogni impulso all’azione; che esso- il mio piccolo mondo- mi piegherà, mi farà debole e pusillanime e meschina, come loro sono”. “Vivere? No, vegetare! Far concessioni, dite? io non voglio far concessioni! Lo vedete bene, l’attuale ordinamento della società è marcio, marcito sino alle radici, sporco e volgare; ma voi non fate nulla per rovesciarlo. Non abbiamo però alcun diritto di chiudere le orecchie alle grida della miseria e di far finta di non vedere le vittime del nostro sistema! Ho ventun anni, e devo tacere e sogghignare come una bambola. Io non sono una bambola. Sono un essere umano in cui scorre sangue rosso e sono una donna con un cuore palpitante. E non posso respirare in quest’atmosfera di ipocrisia e di viltà, voglio fare qualcosa di grande e devo avvicinarmi, almeno un poco, al mio ideale, il mio orgoglioso ideale! Mi costerà delle lacrime? Ma che cosa fare, da che parte cominciare? Tutto questo ribolle e palpita in me, sento che sta per rompere ciò che lo trattiene! Libertà! Rivoluzione!” “No, le mie non sono frasi. Io non penso alla liberazione dell’anima: io intendo la reale, tangibile libertà del popolo dalle catene dei suoi oppressori. devo esprimermi ancor più chiaramente? Io voglio la rivoluzione, una grande sollevazione che si estenda in tutto il mondo e rovesci l’intero ordinamento sociale. Vorrei lasciare patria e genitori come una nichilista russa, vorrei vivere tra i più poveri dei poveri e far propaganda per la grande causa. E non per spirito d’avventura! No! Chiamatelo pure impulso all’azione insoddisfatto, se volete, ambizione indomabile. Che cosa importa il nome che si dà alle cose? Per me è come se questo ribollire del sangue sia già qualcosa di meglio. Oh, soffoco in questa meschina vita quotidiana. Sazia soddisfazione di sé o avidità egoistica, rassegnazione senza gioia o brutale indifferenza: queste le piante che prosperano al sole della vita d’ogni giorno. Crescono lussureggianti, queste piante, e come mala erba soffocano i fiori della nostalgia che sono spuntati in mezzo a loro”. “Tutto in me trema di paura, paura delle bisce della vita quotidiana, che vogliono avvolgermi con i loro freddi corpi e spegnere in me il coraggio di lottare. Ma già si dispone alla difesa la mia esuberante energia. Io me le scuoto di dosso, devo scuotermele di dosso. Dopo questa notte d’incubo deve sorgere il mattino”.
(‘Il caso…’, pag. 62-64)



Dal diario: Ellen a 33 anni (1920- pochi mesi prima della morte): ‘soffrire come una bestia’.
“…Orrenda la sensazione di vuoto. Non ho nulla che riesca ad attenuare questa sensazione.
Certo il quadro, in generale, si è spostato. Ancora un anno fa mi rallegravo di aver fame e mangiavo di buon appetito. I purganti che prendevo ogni giorno mi impedivano di ingrassare. Sceglievo naturalmente i cibi con la stessa preoccupazione, evitavo ogni alimento ingrassante, ma tuttavia mangiavo con piacere e gioia lw cose che potevo permettermi. Adesso invece,nonostante la fame che sento, ogni pasto è un tormento; accompagnato ogni volta da sentimenti di angoscia. Ora, tali sentimenti di angoscia non mi lasciano assolutamente più. Li sento come qualcosa di fisico: un male qui nel cuore.
Quando mi sveglio al mattino provo l’angoscia per quella fame che so che ben presto si farà sentire. La fame mi spinge fuori dal letto. Faccio colazione- e non passa un’ora che ho di nuovo fame. Per tutto il giorno la fame o l’angoscia per questo mi tormentano. L’angoscia di aver fame è qualcosa di orribile. Essa bandisce tutti gli altri pensieri dalla mia testa. Persino quando sono sazia penso con spavento che tra un’ora la fame sarà un’altra volta lì a tormentarmi. quando ho fame non posso più scorger con chiarezza, analizzare nulla.
Descriverò brevemente quanto mi può succedere al mattino. Siedo allo scrittoio e lavoro. Ho molto da fare; molte cose di cui son lieta di occuparmi. senonchè una tormentosa inquietudine non mi consente di raccogliermi. Balzo in piedi, corro qua e là, continuo a fermarmi davanti alla credenza in cui tengo il pane. Ne mangio un poco; altri dieci minuti, e salto di nuovo su e ne mangio ancora. Mi propongo severamente di non a mangiare più nient’altro. E naturalmente posso esercitare una sufficiente forza di volontà per farlo. Ma il desiderio di mangiare, questo è insopprimibile. Per tutto il giorno non riesco a cacciarmi dalla testa il pensiero del pane. Riempie a tal punto il mio cervello che non c’è più posto per altri pensieri: non posso concentrarmi né nel lavoro, né nella lettura. Per lo più finisce che esco in istrada. Fuggo davanti al pane nella credenza e vado in giro senza meta. Oppure prendo un purgante. Come si può analizzare tutto questo? Da dove viene quest’invincibile inquietudine? Perché penso di poterla attenuare soltanto mangiando? E perché poi il mangiare mi rende tanto infelice? Si potrebbe dirmi: ‘Mangia dunque questo pane e ti calmerai’. Non è così invece, quando ho mangiato sono altrettanto infelice. Torno a sedermi e allora il pane che ho mangiato è sempre lì, davanti ai miei occhi, mi palpo lo stomaco e son costretta a pensare senza requie: ecco, adesso ingrasserai! Quando tento di analizzare tutta questa faccenda, non ne vien fuori che teoria. Un almanaccamento. Sentire, mi riesce soltanto di sentire l’inquietudine e l’angoscia. [L.B.: ‘segue un tentativo di analisi’] Ma tutte queste sono solo immagini fantastiche; devo stillarmi il cervello, per pensarle. sarebbe facile analizzare un altro in questo modo. a me, invece, non resta frattanto che voltolarmi nella mia angoscia mortale e devo passare mille e mille ore d’orrore. Mi sembra che i giorni siano fatti di migliaia di ore, e spesso tutto questo pensare morboso mi stronca a tal segno che non mi auguro ormai che la morte. La cosa più orribile è ogni volta che mi alzo da tavola. Quel che vorrei sopra ogni cosa è non mangiare affatto per non ritrovare quell’orribile sensazione dopo ogni pasto. Ormai per tutta la giornata ho paura di questa sensazione. Come far a descriverla? ‘E una oscura sensazione di vuoto nel cuore, una sensazione d’angoscia e d’abbandono. Talvolta il cuore mi batte così forte che me ne vengono le vertigini. Nell’analisi abbiamo dato questa spiegazione: nel mangiare io cerco di soddisfare due cose: la fame e l’amore. La fame viene appagata- l’amore no! Resta il gran buco non riempito.
Al mattino, al risveglio, già comincio ad avere paura dell’; e questa angoscia mi accompagna tutto il giorno. Provo angoscia persino all’idea di entrare in un negozio di generi alimentari. La vista dei generi alimentari desta in me delle brame che essi (i generi alimentari) non possono mai appagare. Come se uno tentasse di estinguere la sua sete nell’inchiostro.
Troverei forse la liberazione se potessi risolvere questo enigma: scoprire il punto di raccordo tra il mangiare e la brama. Il rapporto erotico-anale è mera teoria [ era allora in corso la 2° analisi –nota mia ]. Mi è del tutto incomprensibile. Assolutamente io non mi capisco. ‘E terribile non capire se stessi. Io sto di fronte a me stessa come ad un estraneo: ho paura di me stessa, ho paura dei sentimenti dei quali in ogni momento sono in preda senza che me ne possa difendere. Questo è l’orribile nella mia vita: essa è ricolma di angoscia. Angoscia del mangiare, angoscia della fame, angoscia dell’angoscia. Dall’angoscia può liberarmi soltanto la morte. Ogni giorno è come camminare su una cresta vertiginosa, un eterno bilanciarsi sugli scogli. ’E inutile che l’analisi mi dica in anticipo che questa angoscia, questa tensione la voglio io. ‘E ingegnoso, ma non è di nessun aiuto per il mio povero cuore: chi la vuole questa tensione, chi, che cosa? Non vedo più nulla, tutto si confonde, tutto è sottosopra.
Il mio è sempre e soltanto un rovello dell’intelletto. Nel mio io più riposto nulla muta, il tormento permane identico. ‘E facile dire: tutto è perspicuo. Quel che bramo è la violenza- e in effetti mi sto violentando ora per ora. Ho dunque raggiunto il mio scopo.
Ma l’errore dov’è, dov’è l’errore? Perché la mia miseria è senza limiti e mi sembra stupido dire: ‘proprio questo voglio: essere miserabile’. Queste sono parole, sono soltanto parole, parole… e intanto soffro, come non si lascerebbe soffrire una bestia”.
(‘Il caso…’, pag.75-78)



II     Rogers

Il ‘caso Ellen West’ fu stampato negli USA nel 1958 (assieme a altri testi di Binswanger, Minkowski, E.Straus etc.) in un volume curato da Rollo May, Angel e H. Ellenberger (il futuro autore de “La scoperta dell’Inconscio”): un’opera destinata a una grande e duratura influenza, intitolata (sulle tracce di Heidegger) “Existence”.
Poco dopo Carl Rogers partecipò a un seminario interdisciplinare (c’erano psichiatri, psicologi, un antropologo sociale, uno storico) dedicato espressamente a Ellen West. Una prima versione, abbreviata, del suo intervento fu pubblicata nel 1961; il testo completo nell’’80, in quello che è praticamente il suo testamento spirituale, “Un modo di essere” (‘Ellen West e la solitudine’, pag. 139-152 della edizione Martinelli).
‘E un testo inusuale: pieno di indignazione ed ira, e al tempo stesso estremamente lucido, con toni che per certi aspetti ricordano quelli successivi di Ronald Laing (doveva averne appena letto “L’Io diviso”, di cui distintamente riprende concetti chiave: il Sé diviso, appunto, e il falso Sé) nella asprezza della denuncia. Un vero e proprio manifesto della terapia centrata SULLA PERSONA, nel senso più forte. Perché per Rogers il nucleo del problema sta proprio lì: nella rinuncia alla pienezza delle proprie responsabilità e autonomie, delle proprie emozioni e sensazioni- per via della paura della solitudine, del ricatto affettivo di genitori e ambiente. E, poi, nell’ulteriore isolamento derivante dalla mancanza di un sistema sociale omogeneo e coeso di valori e di sostegno reciproco, che compensi quella rinuncia (qui riprende implicitamente, come altrove in termini espliciti, il tema della solitudine dell’uomo metropolitano di David Riesman, l’ autore de “La folla solitaria”).- Invece di leggere nel diario e nella storia di Ellen West il progressivo inarrestabile estendersi della mancanza-d’-essere, egli vi vede la repressione famigliare e la paura, che spingono una ragazza intelligente e piena di vita, di arretramento in arretramento, su un terreno sempre più ristretto e angoscioso. fino a intravedere infine nella morte l’unica possibile liberazione. Di questo destino Rogers giudica almeno corresponsabili i vari psichiatri e psicanalisti che, sempre oggettivando lei e i suoi sentimenti, si sono affacendati attorno a lei (fino alla decisione di Bleuler e Binswanger di lasciarla andare incontro al suicidio).
In una specie di esperimento mentale, o fantasia compensatoria forse, immagina che la ragazza si rivolgesse a lui o a qualche altro terapeuta che sapesse trattarla con accettazione e rispetto: che l’aiutassero a non rifiutare né cancellare la propria storia, i propri sentimenti (anche negli aspetti angosciosi e/o contradditori), il proprio corpo. E ritiene che Ellen West quasi sicuramente avrebbe scoperto modi di essere significativi, nella libertà e nella autonomia, tramite un incontro terapeutico in cui non fosse stata lasciata sola, ma il terapeuta avesse dato altrettanta presenza e altrettanta messa in gioco:
“Essere una persona – che talvolta si oppone ai genitori, talvolta alle pressioni sociali, che spesso sceglie di agire anche se insicura del risultato -
è qualcosa di doloroso, costoso, qualche volta perfino terrificante. Ma sarebbe molto prezioso: essere se stessi vale il prezzo che si paga. Ed avrebbe molti altri aspetti degni di nota.
Nella relazione terapeutica in cui tutto di se stessa fosse accettato, Ellen potrebbe scoprire che si può comunicare il proprio Sé più completamente. Scoprirebbe che non ha bisogno di essere sola e isolata, che qualcun altro può capire e condividere il significato della sua esperienza. Scoprirebbe inoltre che in questo processo è diventata amica di se stessa- che il suo corpo, i suoi sentimenti e i suoi desideri non erano nemici estranei, ma parti amichevoli e costruttive di se stessa. Non sarebbe più necessario da parte sua esclamare quelle parole disperata: ‘sto morendo nella lotta contro la mia natura’. I suoi due estraniamenti essenziali sarebbero stati alleviati. Si troverebbe in un rapporto buono e comunicativo con se stessa, e troverebbe più sicuro essere pienamente se stessa in una relazione. Come conseguenza, scoprirebbe di porre più aspetti di se stessa in rapporto con gli altri, e di nuovo con la verifica che non si tratta di qualcosa di pericolosamente insicuro, ma semmai più soddisfacente.
‘E grazie ad un processo simile che, secondo me, la parete di vetro si sarebbe dissolta. Ellen avrebbe scoperto che la vita è avventurosa, e spesso dolorosa. Costituirebbe una perplessità costante il definire il comportamento che meglio si armonizzi ai suoi sentimenti complessi e contradditori. Ma essa sarebbe più viva e autentica, e in rapporto con se stessa e gli altri. Avrebbe risolto il suo problema personale, che è anche quello della grande solitudine dell’uomo moderno.” (pag. 150-151)
E la conclusione, piena di durezza ma anche di speranza:
“Fare di una persona un oggetto si è rivelato utile nel trattamento delle malattie fisiche; non si è dimostrato utile invece con i pazienti psicologici. Apportiamo un aiuto profondo solo quando nella relazione rischiamo noi stessi come persone, quando sperimentiamo l’altro come una persona coi suoi diritti. Solo allora ha luogo un incontro ad una profondità tale da dissolvere il dolore della solitudine in entrambi, nel cliente come nel terapista”. (pag. 152).
Negli anni successivi, fra antipsichiatria, femminismo e generale clima di trasformazione radicale, vi saranno molte altre controletture di ‘casi’ celebri e non: così “Soul Murder” (assassinio dell’anima) di Schatzman (in italiano “La famiglia che uccide”), che ripercorre il caso del Presidente Schreber, trattato da Sigmund Freud, base della interpretazione psicanalitica della paranoia e del delirio; “Foglie di primavera” di Aaron Esterson, anche lui collaboratore di Laing (al centro una ‘semplice’ schizofrenica); “Ritratto di Dora” di Helene Cixous: il ‘caso Dora’, Freud ancora, l’isteria (o anche ‘Facteur de veritè” di Jacques Derrida, a proposito di un celebre seminario di Lacan su Poe). Il testo di Rogers figura sicuramente a pieno titolo in questa compagnia.



III    Alla ricerca di sé

Negli anni ’50 e ’60 si creò negli Stati Uniti un coacervo di tendenze che confluirono in quella che venne definita psicologia umanistica; Rollo May, Abraham Maslow, Carl Rogers, Erch Fromm ne furono fra i massimi esponenti. Comune la polemica contro le tendenze obiettivanti e riduttive della psicanalisi freudiana ortodossa da una parte, e del comportamentismo dall’altra; si rivendicava un aggancio alla soggettività, alla corporeità, all’esperienza interna ed interpersonale, all’empatia. Il terapeuta non poteva essere un distante analizzatore, o giudice cosa vi era di positivo e cosa no (o di normale o no), ma doveva essere coinvolto nel processo terapeutico con tutte le proprie ricchezze e caratteristiche. Si faceva variamente riferimento alle tendenze disumanizzanti della società industriale avanzata e del capitalismo, e alle esperienze drammatiche di fanatismo, dittature, guerre di aggressione e sfruttamento. Si denunciava la perdita dei valori tradizionali, e delle strutture personali e sociali che aiutavano a dare un significato alla esistenza personale e collettiva. Ci si riferiva a autori come Kierkegaard, Kafka, Beckett, Camus, Sartre, Heidegger, Jaspers, Tillich, Buber, W.H.Auden come lucidi interpreti della crisi, e dell’angoscia che generava. Emblematici i titoli di alcune opere: l’essere e il nulla, la nausea, lo straniero, l’età dell’ansia, l’Io e il Tu, il coraggio di esistere, una società mentalmente sana, fuga dalla libertà. Era necessario, si sentiva, partire in ogni caso dalla propria esperienza personale.
Così per esempio Rollo May inizia un suo saggio sulle origini della psicologia esistenziale:
“Anni fa mentre lavoravo al mio ‘The meaning of anxiety’ contrassi la tubercolosi e passai un anno e mezzo in sanatorio [anche Hillman passò all’inizio attraverso la tubercolosi]. A quell’epoca non si conoscevano ancora cure per questa malattia; mentre aspettavo ora per ora e giorno per giorno la fine del mese per vedere se i raggi X rivelassero una riduzione o invece un progredire del male, avevo tutto il tempo necessario per meditare sul significato dell’angoscia servendomi di dati diretti che potevo attingere in me e negli altri ricoverati.
Durante la malattia studiai gli unici due libri allora conosciuti sull’angoscia: ‘Il problema dell’angoscia’ di Freud e ‘Il concetto dell’angoscia’ di Kierkegaard. Valutavo le formulazioni di Freud: la sua prima teoria secondo cui l’angoscia è il riemergere della libido rimossa, e la seconda tesi per cui l’angoscia è la reazione dell’Io di fronte alla minaccia di perdere l’oggetto amato. Kierkegaard, invece, descriveva l’angoscia come la lotta dell’essere vivente contro il nonessere, proprio ciò che io stavo sperimentando in prima persona nella mia lotta con la morte o con il rischio di restare invalido per tutta la vita. Egli spiegava inoltre che il vero terrore nell’angoscia non è la morte in quanto tale, ma il fatto che ognuno di noi si trova dentro di sé contemporaneamente dalle due parti della barricata, vale a dire che ‘l’angoscia è un desiderio di quello che si teme, una repulsione attraente’, come egli la definì. Essa pertanto è simile a una ‘forza arcana che si impadronisce di noi, e dalla quale non possiamo, né vogliamo, staccarci; poiché si teme, ma quel che si teme si desidera. L’angoscia quindi rende l’individuo impotente’.
Quel che più mi colpì fu che Kierkegaard descriveva precisamente quello che io e gli altri ricoverati stavamo sperimentando. Freud invece no; egli scriveva a un livello diverso, spiegava cioè i meccanismi psichici che causano l’angoscia. Kierkegaard descriveva quello che è immediatamente sofferto dall’uomo in crisi: e specificamente la lotta della vita contro la morte, che per noi malati era del tutto reale. Kierkegaard parlava di una crisi che ritengo non dissimile, nella sua essenza, dalle crisi dei pazienti che ricorrono alla terapia, o da quelle che tutti noi sperimentiamo su scala ridotta cento volte al giorno, anche se scacciamo dalla mente la prospettiva ultima della morte. Freud considerava la questione da un punto di vista tecnico, dove il suo genio dominava; forse egli capiva l’angoscia più di chiunque altro. Kierkegaard, genio di tipo diverso, scriveva a livello esistenziale, ontologico; egli conosceva l’angoscia…”
Se l’angoscia era la cifra che permetteva di dare un nome all’epoca, bisognava comunque distinguerne le varietà: non solo la classica suddivisione fra ansia e paura (l’ansia come paura senza oggetto), ma proprio all’interno dell’angoscia.
Tillich scriveva nel 1952:
“Le analisi dell’angoscia patologica in rapporto con l’angoscia esistenziale hanno messo in evidenza i seguenti principi:
1. L’angoscia esistenziale ha un carattere ontologico e non può essere eliminata, ma deve essere inclusa nel coraggio di esistere.
2. L’angoscia patologica è la conseguenza dell’incapacità dell’Io di prendere su di sé quell’angoscia.
3. L’angoscia patologica porta all’autoaffermazione su una base limitata, fissa e irrealistica, e a una difesa coercitiva di questa base.
4. L’angoscia patologica, in rapporto con l’angoscia del fato e della morte, produce una sicurezza irrealistica;in rapporto con l’angoscia della colpa e della condanna, una perfezione irrealistica; in rapporto con l’angoscia del dubbio e della mancanza di significato, una certezza irrealistica.
5. L’angoscia patologica, una volta stabilita, è oggetto di cura medica. L’angoscia esistenziale è oggetto di aiuto sacerdotale [ Tillich era un –eminente- teologo]. Né la funzione del medico né la funzione del sacerdote sono legate esclusivamente a coloro che le esercitano professionalmente… il ministro del culto può essere un medico e lo psicoterapeuta un sacerdote, e ogni essere umano può essere l’uno o l’altro in rapporto col ‘prossimo’. Ma le funzioni non dovrebbero essere confuse e i loro rappresentanti non dovrebbero tentare di prendere l’uno il posto dell’altro. La meta di entrambi è aiutare gli uomini a raggiungere la piena autoaffermazione, a conseguire il coraggio di esistere”. (Paul Tillich, ‘Il coraggio di esistere’, pag. 59)
E Sartre (1943):
“Nell’angoscia la libertà s’angoscia di fronte a se stessa in quanto non è mai sollecita né impedita da niente. Si dirà: la libertà è stata poco fa definita come una struttura permanente dell’essere umano: se l’angoscia ne costituisce la manifestazione, essa dovrebbe essere uno stato permanente della mia sensibilità. essa è, al contrario, del tutto eccezionale. Come spiegare la rarità del fenomeno d’angoscia?
Bisogna anzitutto notare che le situazioni più frequenti della vita, quelle in cui percepiamo i nostri possibili in e mediante la realizzazione attiva di questi possibili, non ci si manifestano mediante l’angoscia, perché la loro stessa struttura esclude l’apprensione angosciosa. l’angoscia, infatti, è il riconoscere una possibilità come mia possibilità, , cioè si costituisce quando la coscienza si vede divisa dalla sua essenza mediante il nulla o separata dal futuro mediante la sua stessa libertà. Allora infatti un niente nullificante mi toglie ogni scusa, e, nello stesso tempo, ciò che progetto come mio essere futuro è sempre nullificato e ridotto al rango di semplice possibilità perché il futuro che sono rimane fuori dalle mie previsioni…” (Jean-Paul Sartre, ‘L’essere e il nulla’, pag. 71)
Sartre partiva da qui per una analisi di quella che egli chiamava ‘malafede’, intesa come capacità propriamente umana di distanziarsi dalla verità della propria esperienza; e per invocare una ‘psicanalisi esistenziale’ (influenzata da Adler, si direbbe) che esaminasse i vari progetti di mondo, e riconducesse le diverse situazioni di vita alle diverse scelte liberamente fatte. Su questa psicanalisi esistenziale (che egli abbozzò in alcuni studi biografici, come quello su Baudelaire e quello su Genet, così egli si esprimeva:
“Il principio di questa psicanalisi è che l’uomo è una totalità e non una collezione: che di conseguenza si esprime integralmente, nel più superficiale ed insignificante dei comportamenti, in altre parole, che non c’è un gusto, un tic, un atto umano che non sia rivelatore.
Lo scopo della psicanalisi è di decifrare i comportamenti empirici dell’uomo, cioè di mettere in piena luce le rivelazioni che ciascuno di essi contiene e di fissarli concettualmente.
Il suo punto di partenza è l’esperienza: il suo punto d’appoggio è la comprensione preontologica e fondamentale che l’uomo ha della persona umana. Quantunque la maggior parte delle persone, in realtà, possano trascurare le indicazioni contenute in un gesto, una parola, una mimica e ingannarsi sulla rivelazione che apportano, ogni persona umana non possiede meno a priori il senso del valore rivelatore di queste manifestazioni, non è meno capace di decifrarle, se è aiutata e guidata. Qui come altrove la verità non si incontra per caso, non appartiene ad un campo in cui bisognerebbe cercarla senza averne mai avuto prescienza, come si può andare a cercare le sorgenti del Nilo o del Niger. Appartiene a priori alla comprensione umana e la fatica essenziale è una ermeneutica, cioè un lavoro di decifrazione, una fissazione ed una concettualizzazione.
Il suo metodo è di confronto: poiché, effettivamente, ogni modo di agire umano simbolizza, alla sua maniera, la scelta fondamentale che bisogna mettere in luce, e poiché, nello stesso tempo, ognuna di loro maschera questa scelta sotto i suoi caratteri occasionali e la sua opportunità storica, è appunto col confronto di questi modi di agire che faremo scaturire la rivelazione unica che esprimono in maniera differente…
…La psicanalisi esistenziale rifiuta il postulato dell’inconscio…” (J.-P. Sartre, ‘L’essere e il nulla, pag. 631-633 passim)


Dalla impostazione sartriana, accompagnata da un grosso radicalismo politico e personale, è rimarchevolmente assente il fine terapeutico, il bisogno di aiutare a crescere, a diminuire le sofferenze inutili (e non solo ad aumentare la lucidità: vero che lo sterminio delle illusioni può essere curativo di per sé). Diversa era ovviamente la posizione degli psicoterapeuti. May scriveva nel 1959, a proposito delle ‘basi esistenziali della psicoterapia’:
“Propongo…di cominciare con l’unico dato reale della situazione terapeutica, cioè con la persona esistente seduta nello studio insieme al terapeuta. Chiediamo: quali sono le caratteristiche essenziali che rendono questa paziente una persona esistente, che fanno di questo sé un sé?
…In primo luogo la signora H., come ogni persona esistente, è centrata in se stessa, e un attacco contro questo centro è un attacco alla sua stessa esistenza.
…Ogni persona esistente ha la caratteristica dell’autoaffermazione, il bisogno di conservare la propria centricità.
…Tutte le persone esistenti hanno il bisogno e la possibilità di uscir fuori dalla loro centricità per partecipare degli altri esseri.
…Il lato soggettivo della centricità è la consapevolezza.
…Il compito del terapeuta …non è solo di aiutare il paziente a divenire consapevole, ma, ancor più importante, di aiutarlo a trasformare questa consapevolezza in coscienza. La consapevolezza consiste nel percepire che all’interno del proprio mondo c’è una minaccia proveniente dall’esterno, una condizione che può essere, come nei paranoidi e nei loro equivalenti nevrotici, correlata con una prevalenza di comportamento agito. Ma l’autocoscienza pone questa consapevolezza a un livello del tutto diverso; il paziente vede che lui è quello minacciato, cioè che egli è l’essere che sta in questo mondo che lo minaccia, che egli è il soggetto che ha un mondo. E questo gli dà la possibilità dell’insight, di ‘vedere verso l’interno’, di vedere il mondo e i propri problemi in relazione con se stesso. E così ha la possibilità di agire sui suoi problemi.
…L’angoscia è lo stato dell’essere umano nella lotta contro quel che potrebbe distruggere il suo essere. ‘E, con le parole di Tillich, lo stato di un essere in conflitto con il non-essere, un conflitto che Freud mitologicamente ha raffigurato nel suo importante e potente simbolo dell’istinto di morte. Una parte di questa lotta sarà sempre contro qualcosa al di fuori del sé. Ma ancora più importante e significativa per la psicoterapia è la lotta interna che abbiamo visto nella signora H.; il conflitto, cioè, all’interno della persona quando affronta la scelta del se e quanto a lungo può mettersi contro il proprio essere, contro le sue potenzialità.” (‘Psicologia esistenziale’, a c. di Rollo May, pag. 65-71 passim).
E Carl Rogers così riassumeva (condividendoli largamente) i principi guida alla base della terapia secondo May:
“…più il sé dell’individuo è minacciato, più egli manterrà un comportamento nevrotico, difensivo. Più il sé dell’individuo è minacciato, più i suoi modi di essere e il suo comportamento diverranno circoscritti .
…più il sé è libero dalla minaccia, più l’individuo mostrerà comportamenti di autoaffermazione.
…più l’individuo sperimenta un clima libero dalla minaccia al sé, più mostrerà il bisogno e la realizzazione di un comportamento di partecipazione.
…un’angoscia specifica sarà risolta solo se il paziente perde la paura di essere la potenzialità specifica nei confronti della quale è stato ansioso…” (“Psicologia esistenziale”, pag.76).
La stessa angoscia poteva essere un segnale e uno strumento:
“Lo smarrimento- il non sapere chi siamo e che cosa dovremmo fare- è l’aspetto più doloroso dell’angoscia. Ma la cosa positiva e promettente è che proprio come l’angoscia distrugge la nostra autocoscienza, così l’autocoscienza può distruggere l’angoscia. Cioè a dire, più forte è la nostra autocoscienza, meglio possiamo contrastare e superare l’ansia che, come la febbre, è il sintomo di una lotta interna. Come la febbre è il segno che il corpo sta mobilitando le proprie difese fisiche per dar battaglia all’infezione, poniamo, ai bacilli della tubercolosi nei polmoni [n.b. a quei tempi non c’era una chemioterapia efficace per la tbc], così l’angoscia testimonia la presenza di una battaglia psicologica o spirituale. Abbiamo già osservato che l’angoscia nevrotica è il segno di un insoluto conflitto interiore, e fintantochè il conflitto esiste, ci sono buone probabilità di divenire consapevoli delle sue cause e di trovare una soluzione a un più alto livello di salute. L’angoscia nevrotica è il modo, per così dire, che la natura sceglie per dirci che abbiamo bisogno di risolvere un problema. Lo stesso può dirsi di quella normale: essa è un segno perché si richiamino le proprie risorse e si dia battaglia a una minaccia….
…L’unica cosa che significherebbe perdere la speranza di superare le nostre difficoltà attuali come individui e come nazione sarebbe abbandonarsi all’apatia e mancar di avvertire l’angoscia e di fronteggiarla in modo costruttivo.
Il nostro compito, perciò, è di rafforzare la nostra autocoscienza, di scoprire all’interno di noi centri di forza che ci mettano in grado di resistere a dispetto della confusione e dello smarrimento che ci circondano.” (Rollo May, ‘L’uomo alla ricerca di sé’, pag.31-32 passim)
Per sviluppare l’autocoscienza, scriveva May, il primo passo era riscoprire le proprie sensazioni e il proprio corpo; si doveva poi capire cosa davvero si stava volendo; e, infine, recuperare il contatto con gli aspetti inconsci della mente (op.cit., pag. 73 e segg.); - un modo di procedere estremamente vicino all’approccio fondato sulla persona di Carl Rogers.
Rogers si proponeva di accompagnare il cliente (non ‘paziente’), nel movimento (empiricamente constatato e validato) al di là delle apparenze; al di là del ‘dover essere’; al di là delle attese degli altri; al di là della soddisfazione degli altri; sviluppando persone capaci di ‘sentire di potersi dirigere da sole’, capaci di ‘essere un processo’, di ‘essere complessi’, ‘aperti all’esperienza’, ‘capaci di accettare gli altri’, ‘fiduciosi verso se stessi’ (pag. 166 e segg. dell’edizione italiana di ‘On becoming a person’, ‘La terapia centrata-sul-cliente’ della Martinelli).

D’altra parte, già nel 1959, discutendo con May, Rogers etc., Abraham Maslow aveva insistito sulla necessità di avere come punto di riferimento non solo i limiti dello sviluppo individuale, i problemi, la sofferenza, ma le potenzialità evolutive di crescita (in ‘Psicologia esistenziale’, cit., pag. 47-53). Questo doveva portarlo alla analisi delle esperienze-picco (o esperienze-vetta), e poi allo studio dei ‘limiti superiori della natura umana’; nel contesto americano della fine degli anni ’60, ne nacque quella che si è definita ‘psicologia transpersonale’, con il suo interesse (che fu di una area culturale e sociale vastissima, e condiviso fra gli altri anche da Rogers) per gli stati alterati di coscienza, le forme di religiosità non ortodossa, le esperienze mistiche (a volte quelle psicotiche), le organizzazioni sociali alternative; se il problema era una limitazione sociale e interpersonale della capacità di esperienza, della creatività e delle emozioni, allora invece di limitarsi a denunciare la situazione o combatterne i sottoprodotti (come si tese a interpretare angoscia, follia, patologie varie) era necessario e utile trovare delle alternative.
Da parte dei maggiori interpreti di questa tendenza venne comunque sempre riconosciuto un debito con i predecessori; così per esempio Stanislav Grof in ‘Oltre il cervello’, e il Ken Wilber di ‘Lo spettro della coscienza- che dedicano entrambe capitoli interi a questi snodi storici e concettuali. Bisogna tenere conto, anche, che parallelamente alla psicologia umanistica si erano sviluppate una serie di tecniche centrate direttamente sul corpo e sull’esperienza immediata: terapia della gestalt, rolfing, la bioenergetica di Lowen: quello che Wilber chiama ‘esistenzialismo corporeo; che vi erano temi convergenti nella psicologia analitica junghiana, nella psicosintesi, in movimenti di autoanalisi (individuale e di gruppo); per non parlare della proliferazione di culti, sette, guru, terapie alternative di ogni sorta (dalla cristalloterapia ai fiori di Bach, dai gruppi di meditazione alla reincarnation-therapy)- con livelli di serietà e efficacia estremamente variabili.
Intanto, già nel 1964 Ronald Laing aveva accompagnato con questo commento la seconda edizione di un celebre e innovativo studio di psicologia esistenziale su schizoidia e schizofrenia:
“Non si può dire tutto in una volta sola. Quando ho scritto questo libro avevo ventotto anni: volevo soprattutto dimostrare che, contrariamente a quello che generalmente si crede, è possibilissimo capire gli psicotici. Ciò comportava già per me la necessità di capire il loro contesto sociale, e particolarmente la distribuzione del potere nella loro famiglia: anche così, e anche limitatamente al mio tentativo di rappresentare un certo tipo di esistenza schizoide, oggi mi accorgo di essere in parte caduto nella trappola che volevo evitare. In questo libro si parla ancora troppo di loro, e ancora troppo poco di noi.
Freud ha detto che la nostra è una civiltà repressiva, in cui le esigenze che spingono all’adattamento e al conformismo e quelle delle nostre energie istintuali, esplicitamente sessuali, sono in conflitto fra loro. Freud riteneva che non vi fosse soluzione per questo antagonismo, ed era convinto che, al giorno d’oggi, non vi potesse essere più alcuna possibilità di amore semplice e naturale fra gli esseri umani.
La nostra civiltà non reprime soltanto gli ‘istinti’ o la sessualità, ma anche ogni forma di trascendenza. Fra uomini a una dimensione (cfr. H. Marcuse, ‘L’uomo a una dimensione’) non c’è da meravigliarsi se qualcuno, avendo esperienze insistenti di altre dimensioni e non potendo né rinnegarle né dimenticarle completamente, è disposto a correre il rischio di farsi distruggere dagli altri o di tradire ciò che conosce.
Nel contesto della follia che attualmente ci circonda, e che chiamiamo normalità, salute, libertà, tutti i nostri sistemi di riferimento sono destinati a restare ambigui ed equivoci.
Un uomo che preferisce la morte al comunismo è normale; ma uno che dice di aver perduto la sua anima è matto. Un uomo che dice che gli uomini sono macchine può essere un grande scienziato; ma uno che dice di essere lui stesso una macchina è, nel gergo psichiatrico, ‘spersonalizzato’. Un uomo che dice che i negri sono una razza inferiore può ottenere stima e rispetto; ma uno che dice che la bianchezza della sua pelle è una forma di cancro perde i diritti civili.
Una ricoverata, una ragazzina di diciassette anni, mi disse una volta di essere in preda al terrore perché aveva dentro di sé una bomba atomica. Questo è un delirio: ma gli uomini di stato che vantano minacciosamente il possesso dell’arma finale sono di gran lunga più pericolosi e più estraniati dalla ‘realtà’ di molti ai quali è stata applicata l’etichetta di ‘psicotico’.
La psichiatria può mettersi dalla parte della trascendenza, della libertà vera, del genuino sviluppo umano: alcuni psichiatri sono già di fatto da questa parte. Ma è estremamente facile per la psichiatria ridursi ad essere una tecnica di lavaggio del cervello: un metodo per produrre, mediante torture preferibilmente non dolorose, degli esseri dalla condotta ben adattata. Nei luoghi di cura migliori, dove la camicia di forza è stata abolita, dove le porte sono senza chiavistelli, dove le leucotomie non si fanno quasi più, si usano tuttavia mezzi di aspetto più innocuo, lobotomie e tranquillanti che ri-istituiscono, questa volta dentro il paziente, le sbarre e i catenacci del manicomio. Ecco perché voglio ripetere che il nostro stato ‘normale’ e ‘ben adattato’ non è, molto spesso, che una rinuncia all’estasi, un tradimento delle nostre più vere potenzialità; e che molti di noi riescono fin troppo bene a costruirsi un falso io, per adattarsi a false realtà…”
( “L’io diviso”, pag. 15-16)




IV       PENSIERI D’ARAGOSTA

Un uomo di 30 anni si aggira per una città di un singolare squallore. Caffè Mably, Birreria Vezelise, Albergo Printania, Ritrovo Dei Ferrovieri: le tappe del suo vagabondare. Ascolta frammenti di conversazioni insignificanti, nota scene che si svolgono, raramente scambia qualche parola con qualcuno. Da 3 anni si trova lì; ha rinunciato alla carriera diplomatica, si è dedicato a una ricerca su un oscuro personaggio della fine del ‘700. Nel passato una grande storia d’amore con una attrice, Anny. Ricordi di viaggi: Tokyo, Meknes, Barcellona, Angkor, Shangai…- ma sono vuoti nomi: l’esotismo si è polverizzato. Va alla biblioteca, consulta i documenti, un poco scrive. Il suo massimo rapporto è con un usciere che, per farsi una cultura, si è messo a leggere tutti i libri, di tutti gli argomenti, seguendo l’ordine alfabetico dei titoli; e con la proprietaria di mezza età di un locale, con la quale di tanto in tanto va letto (niente di più, niente di meno). La città è in riva al mare; c’è una collina; c’è un museo; una stazione. Di tanto in tanto legge stancamente brani di romanzi dell’’800 (Balzac, Stendhal); nessun incanto. Un enorme disgusto contro il mondo che lo circonda- un disgusto che parte dai borghesi ( “gli sporcaccioni”) ma che non risparmia nessuno, niente. Non amici; non parenti. (Solo, una musica lo commuove).
A un certo punto, improvvisamente, qualcosa di nuovo comincia a capitare: la nausea lo prende allo stomaco, ondate di angoscia vanno e vengono, i gesti abituali diventano insignificanti o impossibili. Una volta, tanto per uscire dalla paralisi, dirige un coltello contro il proprio braccio; fantastica di accoltellare l’interlocutore, o di uccidersi (ma anche, questo gli sembra inutile, assurdo). Il passato si dissolve davanti a lui, e anche la prospettiva del futuro (e, naturalmente, il progetto di libro cui ha dedicato anni di vita). A volte i pensieri si autonomizzano, gli oggetti perdono la loro connessione semantica, la loro fissità sensoriale, la loro coerenza. Oppure diventano di una evidenza e di una presenza assoluta, mostruosa, terribile: l’Essere si svela nella sua Terribilità. Il tutto assume a volte tinte decisamente paranoidi- ma ci si ferma sempre un passo prima del delirio. Antoine Roquentin non ostante tutto pensa, si interroga, riflette, vede nella sua esperienza non una patologia o un semplice banale dato ma una epifania di una realtà da interrogare con la ragione, a cui dare nomi (la terminologia successiva di Sartre parlerà di assurdo, angoscia, nulla, essere ed esistere…) Questo non lo salva, ma gli permette di dare un resoconto (il libro consiste del suo diario di 3 mesi), di scegliere di lasciare questa città e partire (verso cosa?), di resistere pure al fallimento di una tentata riconciliazione con Anny, di sperare in un qualche futuro.
Il romanzo, “La nausea”, uscì nel ’38, diventando immediatamente celebre. Nel ’43 venne seguito da una enorme opera di filosofia,”L’essere e il nulla” (scritto, si dice, con l’aiuto dell’anfetamina). Negli anni ’20 Sartre ebbe una storia con una attrice; all’inizio degli anni ’30 prese una volta la mescalina, passatagli da un amico ricercatore (fu, secondo Simone de Beauvoir, una esperienza drammatica, con lunghi postumi); aveva collaborato alla traduzione francese della “Psicopatologia generale” di Jaspers; era professore di filosofia nei licei, aveva vissuto anni in una Le Havre in riva al mare, su cui avrebbe modellato la Bouville del romanzo. La disillusione, la ribellione nichilistica, la disperazione erano pane comune fra gli intellettuali francesi in quegli anni- anche se Sartre vi impose un marchio con la sua scrittura lucida, trasparente, di alta e classica eloquenza. (Da parte di influenti marxisti gli venne aspramente rimproverato, allora e anche più tardi, il carattere borghese della sua rivolta). Per molti divenne col tempo una figura mitica. Si parlò, molti anni dopo, di ‘secolo di Sartre’.



(Fuga dal Caffè Mably)

"-Al principio di Via Tournebride mi son voltato ed ho contemplato con disgusto il caffè illuminato e deserto. Al primo piano le persiane erano chiuse. Un vero e proprio panico si è impossessato di me. Non sapevo più dove andavo. Son corso lungo i docks, ho girovagato per le strade deserte del quartiere Beauvoisis: le case mi guardavano correre coi loro occhi spenti. Mi ripetevo con angoscia: dove andare? dove andare? Tutto può capitare. Di tanto in tanto, col cuore che mi batteva, mi voltavo bruscamente; che cosa avveniva alle mie spalle? Magari poteva cominciare dietro di me, e poi, quando d’un tratto mi fossi voltato, sarebbe stato troppo tardi. Fin tanto che potrò fissare gli oggetti, non accadrà niente. Ne guardavo più che potevo, il selciato, le case,i fanali a gas; i miei occhi andavano rapidamente dagli uni agli altri per coglierli di sorpresa e arrestarli nel mezzo della loro trasformazione. Non avevano un’aria troppo naturale, ma io continuavo a dirmi con forza: è un fanale a gas, è una fontanella, e con la potenza dello sguardo cercavo di ridurli al loro aspetto quotidiano. Più volte ho incontrato dei bar sulla mia strada: il Caffè dei Bretoni, il Bar della Marna. Mi fermavo, esitavo un poco dinanzi alle tendine di tulle rosa: forse questi caffè ben tappati erano stati risparmiati, forse racchiudevano ancora una particella del mondo di ieri, isolata, dimenticata. Ma avrei dovuto spingere la porta, entrare. Non osavo; riprendevo il cammino. Le porte delle case, soprattutto, mi facevano paura. Temevo s’aprissero da sole. Ho finito per camminare in mezzo alla strada.
Improvvisamente sono sbucato sulla banchina dei Bacini del Nord. Barche da pesca, piccoli yachts. Ho posato il piede su un anello murato nella pietra. Qui, lontano dalle case, lontano dalle porte, avrei forse avuto un istante di respiro. Sull’acqua calma, picchiettata di semi neri, galleggiava un turacciolo.
“E sotto l’acqua? non hai pensato a quello che può avvenire sotto l’acqua?”
(‘La nausea’, Oscar Mondadori, pag. 126-127)



(Cena con l’Autodidatta)

"-Si piega verso di me con un’aria confidenziale:
“In fondo lei li ama, signore, li ama come me: noi siamo separati soltanto da parole”.
Non posso più parlare, chino la testa. Il viso dell’Autodidatta è proprio contro il mio. Sorride con aria sciocca, vicinissimo al mio viso, come negl’incubi. Mastico penosamente un pezzo di pane che non mi decido a trangugiare. Gli uomini. Bisogna amarli, gli uomini. Gli uomini sono mirabili. Ho voglia di vomitare- e d’un tratto, ci siamo: ecco la Nausea.
Una bella crisi, che mi scuote da capo a piedi. ‘E un’ora che la sentivo venire, soltanto non volevo confessarmelo. Questo sapore di formaggio dentro la mia bocca… L’Autodidatta chiacchiera, e la sua voce mi ronza dolcemente alle orecchie. Ma non so più affatto di che cosa parla. Approvo macchinalmente con la testa. La mia mano è contratta sul manico del coltello da dessert. Sento questo manico di legno nero. ‘E la mia mano che lo tiene. Personalmente, piuttosto lo lascerei tranquillo, questo coltello: a che scopo star sempre a toccare qualche cosa? Gli oggetti non son fatti perché uno li tocchi. ‘E molto meglio scivolare tra di essi, evitandoli il più possibile. Qualche volta se ne prende uno in mano e si è costretti a lasciarlo al più presto. Il coltello cade sul piatto. Al rumore il signore dai capelli bianchi sussulta e mi guarda. Riprendo il coltello, appoggio la lama contro la tavola e la faccio piegare."
(pag. 186-187)


(L’estasi del parco)

"-Ch’io l’abbia sognata, quella enorme presenza? Era lì, posata sul giardino, precipitata negli alberi, mollissima, impiastricciando tutto, densissima, una mostarda. Ed io ci ero dentro, io, con tutto il giardino? Avevo paura, ma soprattutto ero arrabbiato, trovavo che era una cosa così stupida, così fuori posto, e l’odiavo, quell’ignobile marmellata. Quanta ce n’era! Arrivava fino al cielo, e invadeva tutto, tutto riempiva col suo abbraccio gelatinoso, e ne vedevo in quantità sempre più grande, ben oltre i confini del giardino, oltre le case, oltre Bouville, non ero più a Bouville, non ero più in nessun posto, fluttuavo. Non ero sorpreso, sapevo bene che era il Mondo, il Mondo nudo e crudo che si mostrava d’un tratto, e soffocavo di rabbia contro questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava: Senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse. Era impensabile: per immaginare il nulla occorreva trovarcisi già, in pieno mondo, da vivo, con gli occhi spalancati, il nulla era solo un’idea nella mia testa, un’idea esistente, fluttuante in quella immensità: quel nulla non era venuto prima dell’esistenza, era un’esistenza come un’altra, e apparsa dopo molte altre. Ho gridato “che porcheria, che porcheria!” e mi son scrollato per sbarazzarmi di questa porcheria appiccicosa, ma questa teneva duro, e ce n’era tanta, tonnellate e tonnellate di esistenza, indefinitamente: soffocavo nel fondo di questa immensa noia. E poi, d’un tratto, il giardino s’è svuotato come per un gran buco, il mondo è sparito allo stesso modo come era venuto, oppure mi son risvegliato- in ogni caso non l’ho visto più: attorno a me rimaneva della terra gialla, dalla quale uscivano dei rami morti drizzati in aria.
Mi sono alzato, sono uscito.Arrivato alla cancellata mi son voltato. Allora il giardino m’ha sorriso. Mi sono appoggiato alla cancellata ed ho guardato a lungo. Il sorriso degli alberi, del gruppo di allori, ciò voleva dire qualche cosa; era questo il vero segreto dell’esistenza. Mi son ricordato che una domenica, non più di tre settimane fa, avevo già sorpreso sulle cose una specie d’aria di complicità. Era diretta a me? Ho sentito con disappunto che non avevo alcun mezzo di comprendere. Nessun mezzo. e tuttavia era lì, in attesa, sembrava uno sguardo. Era là, sul tronco del castagno… era il castagno. Le cose si sarebbero detti pensieri che si fermassero a metà strada, che s’obliassero, che obliassero ciò che avevano voluto pensare, e che restassero così, ondeggianti, con un bizzarro, piccolo significato che le sorpassava. Mi infastidiva, questo piccolo significato: non potevo comprenderlo, nemmeno fossi rimasto centosette anni appoggiato a quella cancellata; avevo appreso sull’esistenza tutto quello che potevo sapere. Me ne sono andato, sono rientrato all’albergo, ed ecco qua, ho scritto."
(pag. 204-205)


(Dalla collina)

"Guardo ai miei piedi i grigi scintillii di Bouville. Sembra vi siano al sole mucchi di conchiglie, di scaglie, di schegge d’ossa, di ghiaia. Perdute tra questi resti, minuscole schegge di vetro o mica gettano di quando in quando leggeri bagliori. I canaletti, le trincee, i sottili solchi che corrono tra le conchiglie, tra un’ora saranno strade, ed io camminerò in quelle strade, tra i muri. Quei minuscoli ometti neri che distinguo in via Boulibet, tra un’ora sarò uno di loro.
Come mi sento distante da loro, dall’alto di questa collina. Mi sembra d’appartenere ad un’altra specie. Escono dagli uffici, dopo la giornata di lavoro, guardano le case e le piazze con un’aria soddisfatta, pensano che è la loro città, una “bella città borghese”. Non hanno paura, si sentono a casa loro. Non hanno mai visto altro che l’acqua addomesticata che esce dai rubinetti, che la luce che sprizza dalle lampade quando si preme l’interruttore, che gli alberi meticci, bastardi, che vengono sorretti con i pali. Hanno la prova, cento volte al giorno, che tutto si fa meccanicamente, che il mondo obbedisce a leggi fisse e immutabili. I corpi abbandonati nel vuoto cadono tutti con la stessa velocità, il giardino pubblico viene chiuso tutti i giorni alle sedici d’inverno, e alle diciotto d’estate, il piombo fonde a 335 gradi, l’ultimo tram parte dal municipio alle ventitrè e cinque. Son pacifici, un po’ malinconici, pensano a Domani, cioè, semplicemente, ad un altro oggi; le città non dispongono che d’una giornata che ritorna sempre uguale ogni mattina. La si impennacchia un po’ la domenica. Che imbecilli. Mi ripugna pensare che sto per rivedere le loro facce ottuse e piene di sicurezza. Legiferano, scrivono romanzi populisti, si sposano, hanno l’estrema stupidità di fare figli. E frattanto la grande natura incolta s’è insinuata nella loro città, s’è infiltrata dappertutto, nelle loro case, nei loro uffici, in loro stessi. Non si muove, si mantiene ferma in essi, essi vi stan dentro in pieno, la respirano e non la vedono, credono che sia fuori, a venti miglia dalla città. Io la vedo, questa natura, la vedo… So che la sua sottomissione è pigrizia, so ch’essa non ha leggi: quella che scambiano per la sua costanza… Non ha che abitudini, e le può cambiare domani.
E se capitasse qualcosa? Se d’un tratto si mettesse a palpitare? Allora s’accorgerebbero della sua presenza e gli sembrerebbe di sentirsi scoppiare il cuore. A che cosa gli servirebbero, allora, le loro dighe, i loro argini, le loro centrali elettriche, i loro alto forni, i loro magli a vapore? Ciò potrebbe succedere in qualunque momento, magari subito: i presagi ci sono. Per esempio, un padre di famiglia a passeggio vedrà venire verso di lui, attraverso la strada, uno straccio rosso come spinto dal vento. E quando lo straccio gli sarà vicinissimo vedrà che è un pezzo di carne marcia, imbrattato di polvere, che si trascina strisciando, a sbalzi, un pezzo di carne torturata che si rotola nei rigagnoli proiettando a spasmi getti di sangue. Oppure una madre guarderà la guancia del suo bambino e gli domanderà:”Che cos’hai, lì, una pustola?” e vedrà la carne gonfiarsi un poco, screpolarsi, e in fondo alla screpolatura apparirà un terzo occhio, un occhio beffardo. Oppure si sentiranno dolci sfioramenti per tutto il corpo, come le carezze che i giunchi dei fiumi fanno ai nuotatori. E si accorgeranno che le loro vesti son divenute cose viventi. E un altro si accorgerà che qualcosa lo solletica dentro la bocca. S’accosterà ad uno specchio, aprirà la bocca: e la lingua gli sarà diventata un enorme millepiedi vivo, che agiterà le zampe raschiandogli il palato. Vorrà sputarlo, ma il millepiedi sarà una parte di lui stesso, e dovrà strapparselo con le mani. E apparirà una quantità di cose per le quali bisognerà trovare nomi nuovi, l’occhio di pietra, il gran braccio tricorno, l’alluce-gruccia, il ragno-mascella. E colui che si sarà addormentato nel suo buon letto, nella sua dolce camera calda si risveglierà tutto nudo sopra un suolo bluastro, in una foresta di verghe rumoreggianti, rosse e bianche, erette verso il cielo come le ciminiere di Jouxtebouville, con grossi coglioni a metà fuori di terra, villosi e turgidi come cipolle.E attorno a quelle verghe svolazzeranno uccelli che le becchetteranno facendole sanguinare, e da queste ferite colerà dello sperma, pian piano, lentamente, sperma mescolato a sangue, vitreo e tiepido, con piccole bolle."
(pag. 235-237)




APPENDICE: "PSICHIATRI"

Chi pensa alla psichiatria oggi si confronta con un quadro estremamente diverso da quello p.e. degli anni ’70 in Italia: allora predominavano largamente la polemica antiistituzionale e le teorie sociologistiche (‘psichiatria democratica’) che portarono poi alla c.d. legge Basaglia di chiusura dei manicomi; parallelamente, le varie scuole di psicoterapia dinamica godevano di un prestigio indiscusso (riflesso anche nelle pagine dei maggiori trattati, come l’Arieti e l’Ey.- Ora è tutto diverso.
Da una parte, la rivoluzione psicofarmacologica è proseguita, portando a sempre più svariati strumenti terapeutici, in alcuni casi nettamente superiori ai precedenti (è il caso per esempio dei nuovi antidepressivi)- il tutto naturalmente con il sostegno massimo delle case farmaceutiche. Poi vi è lo sviluppo continuato delle neuroscienze, con sempre nuovi strumenti messi in campo, come la Risonanza Magnetica Nucleare, capace di dare immagini nitide e differenziate delle strutture cerebrali più fini, o la PET- tomografia a emissione di positroni- che riesce a cogliere la dinamica funzionale del sistema nervoso centrale; questo sviluppo- assieme ai generali progressi della tecnologia- ha permesso pure una ripresa della neurochirurgia, sempre più mirata: capace per esempio di inserire un elettrodo inibitore su un nucleo ipotalamico controllante l’aggressività, senza dovere ricorrere a interventi demolitori o irreversibili. Vi è stata una enorme attività di sviluppo di farmaci; di testaggio su animali (esistono p.e. modelli animali operativi dell’ansia, pensati per verificare ipotesi e sostanze); di indagine sempre più raffinata sui vari mediatori cerebrali.
Infine, è stato enorme l’influsso del DSM, il “manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”della Associazione Psichiatrica Americana: la sua 3a edizione, del 1980 (il c.d. DSM-III) e le successive si sono imposte a livello mondiale con la loro terminologia, le loro categorie, la loro filosofia (che si propone come ‘neutra’ e ‘scientifica’). Il DSM (giunto ora alla versione rivista della 4a edizione: DSM-IV-TR) ha fra l’altro cancellato la parola nevrosi, e suddiviso l’isteria in entità discrete (di fondo, ha eliminato fin dal titolo, con il termine ‘disturbi mentali’, mental disorders, qualunque discorso sul possibile significato evolutivo di fasi di travaglio e sofferenza). Per quanto riguarda l’ansia, l’entità elementare è il ‘panic attack’, l’attacco di panico (non necessariamente da cause psicologiche: si va dalla caffeina al feocromocitoma come agenti responsabili), il quale può essere comunque collegato a praticamente qualunque disturbo psichiatrico (da depressione a schizofrenia etc etc); ha poi introdotto il DAP, ormai famosissimo (con la ricorrente passione per gli acronimi), il DISTURBO DA ATTACCHI DI PANICO (prima dell’’80 non esisteva).
Nel DSM-IV-TR i Disturbi d’ansia sono così suddivisi:

F41.0 Disturbo di Panico Senza Agorafobia

F40.01 Disturbo di Panico Con Agorafobia

F40.00 Agorafobia Senza Anamnesi Di Disturbo Di Panico

F40.2 Fobia Specifica
specificare il tipo:Tipo Animali/ Tipo Ambiente Naturale/ Tipo Sangue-
Iniezioni-Ferite/ Tipo Situazionale/ Altro Tipo
F40.1 Fobia Sociale
specificare se:Generalizzata

F42.8 Disturbo Ossessivo-Compulsivo
specificare se: Con Scarso Insight

F43.1 Disturbo Post-Traumatico da Stress
specificare se: Acuto/Cronico
specificare se: Con Esordio Tardivo

F43.0 Disturbo Acuto Da Stress


F41.1 Disturbo d’Ansia Generalizzato

F06.4 Disturbo d’Ansia Dovuto a-
[Indicare la Condizione Medica Generale]
Specificare se: Con Ansia Generalizzata/ Con Attacchi di Panico/ Con
Sintomi Ossessivo-Compulsivi
___ _ Disturbo d’Ansia Indotto da Sostanze (far riferimento ai Disturbi Correlati a
Sostanze per i codici delle sostanze specifiche)
Specificare se: Con Ansia Generalizzata/ Con Attacchi di Panico/ Con
Sintomi Ossessivo-Compulsivi/ Con Sintomi Fobici
Specificare se:Con Insorgenza Durante l’Intossicazione/ Con Insorgenza
Durante l’Astinenza

F41.9 Disturbo d’Ansia NAS [=non altrimenti specificato]
>> (DSM-IV-TR, pag. 36)


Da aggiungere che, per rimanere nell’ambito delle vecchie nevrosi, seguono poi, distinti, i DISTURBI SOMATOFORMI (che comprendono fra l’altro il disturbo di conversione, il disturbo di somatizzazione e l’ipocondria), i DISTURBI FITTIZI, i DISTURBI DISSOCIATIVI (amnesia dissociativa, fuga dissociativa, disturbo dissociativo dell’identità, disturbo di depersonalizzazione).
(Per avere una idea più precisa di come questo funzioni rapidamente, e di che tipo di prosa scientifica venga prodotta e proposta, riporto p.e. una mezza pagina- dalla pagina 473 della edizione italiana del manuale:

Criteri diagnostici per F41.0 Disturbo di Panico Senza Agorafobia

A. Entrambi1) e 2):
1) Attacchi di Panico inaspettati ricorrenti
2) almeno uno degli attacchi è stato seguito da 1 mese (o più) dei seguenti sintomi:
a) preoccupazione persistente di avere altri attacchi
b) preoccupazione a proposito delle implicazioni dell’attacco o delle sue
conseguenze (per es. perdere il controllo, avere un attacco cardiaco,
“impazzire”)
c) significativa alterazione del comportamento correlata agli attacchi.

B. Assenza di Agorafobia.

C. Gli Attacchi di Panico non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es. una droga di abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale (per es. ipertiroidismo).

D. Gli Attacchi di Panico non sono meglio giustificati da un altro disturbo mentale, come Fobia Sociale (per es. si manifestano in seguito all’esposizione a situazioni sociali temute), Fobia Specifica (per es. in seguito all’esposizione ad una specifica situazione fobica), Disturbo Ossessivo-Compulsivo (per es. in seguito all’esposizione allo sporco in soggetto con ossessioni di contaminazione), Disturbo Post-Traumatico da Stress (per es. in risposta a stimoli associati con un grave evento stressante) o Disturbo d’Ansia di Separazione (per es. in risposta all’essere fuori casa o lontano da congiunti stretti).
>> ) (DSM-IV-TR, pag. 473)



Molti dubbi e perplessità rimangono nella comunità psichiatrica rispetto a questa classificazione (si veda addirittura la prefazione dei curatori dell’edizione italiana del DSM-IV-TR): vi è una moltiplicazione di entità diagnostiche, che non è detto corrispondano a autentiche sindromi o disturbi; vi è un uso spropositato del concetto di co-morbilità; manca un aggancio alla psicopatologia e alla eziopatogenesi; gli aspetti propriamente psicologico-relazionali compaiono in forma quasi caricaturale.
Il metodo di lavoro che si è complessivamente data la psichiatria ha comunque una sua autonomia e una sua validazione (a volte circolare): così il DAP è unificato dalla risposta positiva agli antidepressivi per quanto riguarda i sintomi primari (gli attacchi di panico: meno sensibili ansia anticipatoria e comportamenti di evitamento e di dipendenza); già nel 1964 si parlò di ‘dissezione farmacologica’ a proposito dell’isolamento dei vari quadri sulla base della diversa responsitività ai farmaci), oltre che per la individuazione delle strutture cerebrali pricipalmente coinvolte nella patogenesi (per il DAP soprattutto il locus coeruleus, che è il massimo centro adrenergico dell’SNC, mentre p.e nel DOC, il disturbo ossessivo-compulsivo, sarebbero frequenti e determinanti lesioni organiche in alcuni sistemi, e la risposta agli antidepressivi avverrebbe con tempi e modalità diverse che nel DAP.
Quasi universali, in testi e linee guida per la terapia, le lodi per la terapia cognitiva (in precedenza per le tecniche di rilassamento e per la terapia comportamentale).
Esiste una varietà di accenti, certo, fra gli oltranzisti della neurobiologia e coloro che tendono a attribuire più importanza a fattori altri. ‘E abbastanza equilibrata per esempio l’analisi fatta nel ‘Trattato Italiano di Psichiatria’ (sia nel contributo che affronta i problemi psicopatologici che in quelli che si occupano dei disturbi d’ansia in senso stretto); largamente squilibrato in senso opposto un volume collettaneo curato da Pancheri. Nel suo trattato di psicanalisi psichiatrica, Gabbard cerca di salvare alla psicodinamica l’onore delle armi (basandosi in larga parte sulla c.d. Psicologia dell’Io).
Mi pare comunque difficile negare che il senso complessivo del tutto è:
a) rafforzamento del potere degli psichiatri (e delle case farmaceutiche);
b) feticizzazione del farmaco;
c)promozione di un atteggiamento che tende a ridurre la mente (l’anima, l’Io, il Sé, la psiche) a oggetto di interventi di tipo manipolativo, tecnologico, oggettivante;
d) si può aggiungere che uno scientismo tanto esasperato rischia di evocare in contrapposizione a sé risposte irrazionaliste di tipo del tutto fideistico (c’è chi preferisce credere alla cristalloterapia che non al sistema gabaergico, dopo tutto-).





BIBLIOGRAFIA


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Carl R. Rogers, “La terapia centrata-sul-cliente”, Martinelli, 1994 (basato su ‘On
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1961, più alcuni interventi successivi).
Carl R.Rogers, ”Un modo di essere“, Martinelli, 1983 (1980).
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Jean-Paul Sartre, “L’essere e il nulla“, Saggiatore, 2002 (1943).
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Ken Wilber, “Lo spettro della coscienza“, Crisalide, 1993 (1977).

3 commenti:

  1. per me è stato un lavoro seminale. la (ri)scoperta di strumenti grazie ai quali- dopo anni di silenzio pubblico- potevo parlare

    la foto all'inizio è l'unica foto esistente di 'Ellen West'

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  2. Ennio Abate:

    Giacomo, ho visitato il sito e leggerò con più calma appena posso.
    Un suggerimento tecnico. Tra i comandi di 'blog spot' che uso anch'io, ce n'è uno (un rettangolo con una seghettatura orizzontale) che permette di mostrare al visitatore solo la prima parte del post e poi, se vuole, cliccando 'altre informazioni' può leggere tutto.
    Lo trovo comodo per varie ragioni che qui non spiego.
    Ciao
    E

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  3. sì. è un buon suggerimento. cerco di capire come fare.

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